Preludio: “Qualunque cosa”

SVEZZAMENTO

Dalle tante mie ferite ancora aperte, ogni rivolo di sangue scivolato sul mio corpo, testimone di viscerale dolore, trattiene in sé ammonimenti vitali e racchiude il racconto di storie dorate, come la prima spremitura delle olive d’autunno.

Tempo fa ormai, rimase incagliata nella mia mente una frase che tutt’ora non mi abbandona mai nel corso della vita, una delle poche che ancora oggi lascia intravedere un barlume di speranza in mezzo a tanta grigia confusione: “Nella vita non conta l’essere forti, ma conta il sentirsi forti, il saper tenere tra le mani ben salde le redini della vita, a volte legate a fiere di imprevedibilità”. Questa frase è di certo uno snodo essenziale nella mia attuale condizione esistenziale. Mi sento costantemente attratta dal percorso che essa mi indica, quasi fosse la chiave per decodificare un arcano segreto. L’animale che è in me spinge per studiarla sempre di più, con sempre più dedizione, come se al suo interno fosse racchiusa anche la risposta a tutti gli aleatori “perché?” che mi pongo e mi sono posta in passato, per poi accatastarli in un angolo della mia mente con sdegno.

L’animale mi chiede di raccontargli la mia storia, chiede di raccontarmela, e io mi incammino per questo sentiero che si rischiara passo dopo passo, con una strana fede nel petto iniziando a ricordare.

Siamo arrivati ad uno svincolo: a questo punto mi vengono in mente stravaganti associazioni. Ripenso alle più grandi e alle più crudeli ferite inflitte sul mio animo: bruciano ancora, invadono il pensiero in maniera totalizzante. Quanto ho sofferto per amore? Fino a che punto mi sono fatta annullare dalle volontà di riscatto degli altri? Nel mio cuore l’amore è abbracciato ad un sentimento di dolore, di colpa, di insoddisfazione e delusione. Smettere di provare dolore significherebbe, per me, inevitabilmente, smettere di amare, di bruciare, di durare, oppure cambiarne perlomeno le prospettive e le dinamiche. Sono un complesso e intricato labirinto coperto di spine, penso: insidiosa e suadente agli occhi altrui, attanagliata da dentro dalla vuota, costante paura di inconsapevole stupidità, di avere così poche idee in testa da non poterle comunicare a nessuno per non svuotarmela completamente. E se la mia paura di fregarmi, di fregarli, di deluderli, fosse solo sinonimo di imbecillità?

Solo la mia storia, i miei vissuti, possono descrivermi e raccontarmi in maniera precisa: se sicuro è l’accaduto, deducibile soltanto è il sentito… e ritengo che le deduzioni non si accordino un granché con una variabile di infinite possibilità. Lei mi ha educato alla coesistenza con momenti e periodi d’assurdo, ha detto di vivermi l’attrito del mio corpo che cambia, che esistono attimi che ti riformano del tutto con la loro intensità.

Quel pomeriggio d’agosto, quella macchina, quella strada, per esempio, rappresentano attimi che si ripeteranno per sempre in una loro dimensione senza esaurire mai la loro intrinseca energia, finché io non esaurirò la mia. Sono istanti che vivono in me e che mi accompagnano verso la consapevolezza inesorabile del destino nostro e mio.

L’orologio dell’auto segnava le 18:22; noi attraversavamo il tramonto, e la vita in quel preciso istante, lo ricordo come sensazione sulla pelle, emetteva una luce calda, abbagliante, amorevole, che si dispiegava addosso sulle curve dei nostri corpi e leccava le nostre ferite. Il sole splendeva arancione e tondo davanti a noi, tutt’intorno invece, adagiati a sua tutela, colline verdi primavera, stagni turchesi, anatre, rane, aironi, gabbiani… Il cielo cominciava a colorarsi di blu oltremare alle nostre spalle. La nostra storia prevedeva un finale in grande stile e la vita ci stava dolcemente, tragicamente, preparando al nostro tramonto, alla nostra notte.

Di ritorno da una giornata di sole, da una giornata di mare, il tanfo di salsedine era persistente sotto le narici e nauseabondo, i capelli secchi e spettinati, sciolti sulle spalle, le mani screpolate, il costume pieno di sabbia, l’asciugamano bagnato sul sedile e un po’ di adrenalina consumata ancora addosso, che si accumulava in stanchezza nelle pieghe sotto gli occhi arrossati. L’insieme delle irritanti e fastidiose circostanze aveva su di me un effetto piacevole e calmante, tanto che sarei rimasta così, seduta sul sedile, per tante altre ore. Io ero al mio solito posto, lui al suo: ben sveglio al volante. Guardandolo, non sembrava essere del mio stesso canto: il caldo lo annoiava, il sole lo innervosiva. Lui non vedeva l’ora di tornare a casa, lavarsi e cucinare per entrambi. Eravamo noi due. Lui aveva i capelli brizzolati sparati verso l’alto, che rendevano meno evidenti le stempiature sempre più presenti col passare degli anni, il petto nudo perlato di sudore, i sandali mezzi rotti legati ai piedi anch’essi coperti di sabbia, lo sguardo dritto. Le sue mani attiravano il mio affetto: erano uguali alle mie, avevano la stessa storia. Il suo collo, la sua barba, il suo controllo, i suoi occhi tristi. Cosa lo rendeva triste? Quale dolore originario era tornato per salutare? Erano occhi di rassegnazione, di pentimento, di disgusto, di disperazione. Cosa lo faceva arrabbiare?

Spostavo lo sguardo dal paesaggio che si apriva ammaliante dietro al mio finestrino ai suoi occhi, alle sue sopracciglia, riflesse nello specchietto retrovisore. I nostri sguardi si incrociarono e in quel preciso momento, forse durato per sempre, il suo mi rimase conficcato nello stomaco, nella gola, negli occhi, come fosse una freccia avvelenata, dando origine dentro di me a un rigurgito emotivo abbagliante. Quell’istante me lo sentii scoppiare dentro al cuore di un’esplosione feroce, distruttiva, neutralizzante.

Fuori era il silenzio; solo il vento si manifestava rumorosamente entrando dai finestrini del tutto abbassati.

Mi girai verso di lui, lo guardai.

“Papà, lo sai che mi piace il tuo odore?”

Il suo sguardo era il mio, adesso…

Lui rimase sorpreso dalla mia esternazione, forse non comprese a pieno che l’odore del suo sudore era vita per me, ma allo specchietto mi mostrò i denti in un sorriso meraviglioso e gli occhi gli si ravvivarono d’un poco. Io muovevo la testa sconsolata, piangevo disperata, senza guardarlo. Il suo sorriso si era fatto portatore di amare consapevolezze, pugnalate per il mio cuore speso per lui.

“Papà non morire, ti prego. Ho bisogno di te.”

Lui tornò ad avere sembianze contrariate, ma le mani rimasero ferme sul volante. Ricordo che si tradiva solo con il viso per via degli occhi suoi profondi come oceani, luccicanti come quelli di un bambino, che piangevano il desiderio stramazzato di rivoluzione e di libertà.

“Non è così semplice”- disse arricciando la bocca- “Invece è bene così, è bene non soffrire. Comunque vada alla fine, qualunque cosa accada, la affronteremo insieme.”

E questo è il ricordo che ho di lui, la memoria che la mia mente ha costruito su di lui, uomo dalle fattezze ormai mitiche: un Sergio sognante, di cui ancora fantastico le fossette a incorniciare il sorriso, le ciglia lunghe, le mani grandi, un Sergio che ha creduto in me e nella mia forza, coraggioso nel non lasciarsi scivolare il tempo addosso fino all’ultimo, essenziale per avermi dimostrato, non lo avrebbe creduto nemmeno lui, come nella vita non sia importante essere forti, (non lo si può essere mai in fondo di fronte alla vita), ma sentirsi forti dentro, lasciare il timone all’animale che è in noi. “La affronteremo insieme”: “non ho idea di come, ho paura anche io, ma la affronteremo insieme e insieme vivremo”. Il primo uomo a raggiungere e a camminare la superficie del mio cuore, il primo uomo ad amarmi, il primo uomo mai esistito.

Invece, alla fine, col senno di poi posso dirlo, affrontai tutto da sola. Come ultimo atto d’amore mi lasciò andare con fede, dichiarandomi libera ed adulta, trasformando un amore confinato in una storia senza limiti, sapendo che, tanto, non ci sarebbe stata mai morte a poter vincere il vincolo della bellezza.

Così lui continuò a trascinarci sulla strada, con me che piangevo e lui anche. Mi portò a casa, il cielo nel frattempo si era annuvolato, era grigio.

Non so se quando partì mettendo in moto si fosse voltato un ultima volta indietro per portarmi con sé, ma so che mi fece una promessa.

Prima di scendere lo guardai.

“Papà, resti con me?”

“Sì, resto con te.”

Resta con me.

B.M.D.



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